-I-

L’emergenza causata dalla diffusione del Covid 19, al di là della pesante negativa incidenza a livello sociale e sanitario, pregiudica in modo rilevante le attività economiche, per effetto dei provvedimenti statali di chiusura degli esercizi commerciali che forniscono servizi e prodotti ritenuti non essenziali.

Anzitutto, occorre precisare l’inesistenza di norme che consentano al conduttore, la cui attività sia stata interdetta dai citati provvedimenti statali, di sospendere o ridurre unilateralmente il canone, tantomeno, di risolvere o recedere dal contratto.

Difatti, l’art. 65 del D.L. 18/2020 ha previsto, a sostegno dei conduttori, un credito d’imposta pari al 60% del canone di locazione per il mese di marzo (anche se nulla è previsto circa i contratti di affitto di azienda), risultando così confermato che il canone deve comunque essere corrisposto.

Una prima disposizione di  tutela del conduttore è contenuta nel medesimo Decreto c.d. “Cura Italia” , con il quale è stata inserita (art. 91) una disposizione –  integrativa della Legge n. 13 del 5 marzo 2020 – a mente della quale “… il rispetto delle misure di contenimento [dell’epidemia] è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

Detti articoli prevedono, rispettivamente, che “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”, il primo, e che “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”, il secondo.

Tali disposizioni, però, focalizzano l’attenzione solo sull’obbligazione del conduttore-debitore, mentre l’emergenza del Covid19 può essere considerata una sopravvenienza contrattuale atipica, idonea ad incidere sul sinallagma contrattuale.

-II-

II.1. Com’è noto, oggi si ammette la rilevanza delle cc.dd. sopravvenienze contrattuali atipiche, anche sulla spinta dei contributi emersi nel panorama europeo.

La regola stabilita dall’art. 1372 c.c. secondo cui “il contratto ha forza di legge tra le parti. Non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge” applicabile a qualsivoglia pattuizione contrattuale (dunque, anche al contratto di locazione) opera rebus sic stantibus e cioè soltanto se rimangono inalterate le circostanze di fatto e di diritto sussistenti.

Ove tali circostanze mutino, venendosi ad alterare l’equilibrio funzionale del contratto medio tempore sottoscritto, il principio di buona fede (che ha grande rilevanza anche in sede di esecuzione del contratto) impone di tollerare eventuali varianti nelle prestazioni altrui oppure di modificare le proprie nell’interesse della controparte, nei limiti di un sacrificio sopportabile.

La dottrina più moderna, addirittura, dal canone della buona fede esecutiva ha teorizzato l’esistenza di un generale obbligo di rinegoziazione, anche in assenza di una previsione normativa o di una apposita clausola pattizia, qualora si verifichino circostanze tali da incidere in modo significativo sulla situazione esistente al momento della stipulazione.

Ed il rifiuto ingiustificato di rinegoziare, violando il dovere di eseguire il contratto secondo buona fede, legittimerebbe la parte adempiente a chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento.

II.2. Al fine di risolvere il problema delle sopravvenienze atipiche, la dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato l’istituto della presupposizione, oltre che della nuova concezione di causa in concreto.

Per quanto concerne la presupposizione, essa ricorre in presenza di una determinata situazione di fatto o di diritto (presente, passata o futura), obiettiva ed esterna (e quindi non oggetto di obblighi contrattuali), certa, determinante del consenso nell’an o nel quantum in base ad una interpretazione secondo buona fede del contratto.

È quindi una circostanza esterna al contratto che, senza essere prevista quale condizione dello stesso, ne costituisce un presupposto oggettivo in quanto le parti l’hanno ritenuta determinante ai fini del permanere del vincolo contrattuale, in forza di un’interpretazione conforme a buona fede della volontà negoziale.

Relativamente al fondamento giuridico della presupposizione sono emerse varie teorie:

(i) la tesi della condizione risolutiva implicita, oggetto tuttavia di critica in quanto, mentre in condizione viene dedotto un evento futuro e incerto, la presupposizione riguarda eventi, non necessariamente futuri e comunque certi al momento della stipulazione (a titolo esemplificativo: affitto il balcone per vedere il Palio di Siena e l’evento viene cancellato).

Inoltre, la disciplina della condizione non fornisce adeguata tutela perché comporta la risoluzione del contratto con effetti retroattivi, sia tra le parti, che per i terzi, mentre sarebbero molto più efficaci dei rimedi manutentivi;

(ii) la tesi del difetto causale, da alcuni ritenuta dogmaticamente non corretta in quanto la causa è elemento essenziale del contratto e l’indagine sulla sua sussistenza deve essere effettuata ab origine, essendo irrilevante che gli interessi perseguiti dalle parti siano diventati irrealizzabili.

Accogliere questa tesi non porterebbe ad esiti soddisfacenti neanche in tema di autotutela perché l’assenza della causa determina la nullità del contratto opponibile anche ai terzi, a prescindere dalla loro buona o mala fede e dal carattere oneroso o gratuito del contratto;

(iii) la tesi (preferibile) dell’autonomia, secondo cui la presupposizione è un autonomo istituto che assegna rilevanza a circostanze che, pur non attenendo alla causa del contratto o al contenuto dello stesso, assumono valore determinante per il mantenimento del vincolo contrattuale in applicazione del principio di buona fede.

Il suo fondamento giuridico risiede, quindi, nel principio di buona fede.

In presenza di fattori sopravvenuti, le parti dovrebbero quindi cooperare, apportando modifiche alle originarie prestazioni; qualora le modifiche non siano di per sé sufficienti a ripristinare l’equilibrio originario, secondo una certa dottrina, si potrebbe addirittura imporre la rinegoziazione.

Il rimedio caducatorio dovrebbe essere solo l’estrema ratio, a cui ricorrere qualora la conservazione del contratto non sia praticabile.

Permangono dubbi su quale sia il rimedio caducatorio utilizzabile.

Alcuni riconoscono al contraente svantaggiato dalla sopravvenienza un diritto potestativo di recesso; ammettendo questo rimedio, però, la conservazione del rapporto contrattuale sarebbe subordinata alla volontà della parte danneggiata, rispetto alla quale la controparte si troverebbe in una mera posizione di soggezione.

Altri invece propongono di applicare analogicamente la disciplina prevista dall’art. 1467 c.c. in tema di onerosità sopravvenuta, in quanto viene in rilievo un fattore esterno al contratto che, pur non rendendo impossibile l’esecuzione della prestazione, incide in maniera significativa sull’equilibrio sinallagmatico originario.

Insomma, le esigenze di tutela verrebbero soddisfatte per il fatto che questa risoluzione ha effetto retroattivo solo tra le parti e non per i terzi, i cui diritti acquistati non verranno pregiudicati.

Inoltre, il comma terzo dell’art 1467 c.c. prevede anche un rimedio manutentivo perché dispone che la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto.

Secondo una parte della dottrina, che fornisce un’interpretazione ampia del principio di conservazione, se la parte avvantaggiata dall’evento sopravvenuto può chiedere la riconduzione ad equità, non vi è alcuna ragione ostativa ad ammetterne la richiesta anche dalla parte svantaggiata.

II.3. Un altro strumento efficace per combattere le sopravvenienze atipiche è la causa in concreto.

Infatti, concepita la causa come funzione economica individuale (sintesi degli interessi reali dei contraenti), essa deve essere considerata non solo un requisito genetico ma, altresì, funzionale del contratto.

Il venir meno della causa del contratto comporterebbe risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione ex art. 1463 c.c. Infatti, un’interpretazione estensiva di questo articolo ricomprenderebbe anche i casi di impossibilità di utilizzo della prestazione a causa di eventi sopravvenuti che non rendono più idonea la prestazione a soddisfare l’interesse del creditore.

La Corte di Cassazione nell’anno 2007, con distinte sentenze, ha esaminato due casi di risoluzione del contratto per impossibilità di utilizzo della prestazione da parte del creditore.

Il primo è quello di un contratto di viaggio tutto compreso stipulato per una vacanza in località caraibica: la diffusione di una epidemia in detta località è stata considerata una sopravvenienza tale da rendere inidonea la prestazione del tour operator a soddisfare l’interesse del creditore (che era uno scopo ludico).

Il secondo, è il contratto di albergo stipulato da due coniugi che devono festeggiare le nozze d’oro, in cui la morte di un coniuge rende inutilizzabile la prestazione dell’albergatore.

*

L’avvento della causa in concreto, come requisito anche funzionale, non determina il venir meno dell’istituto della presupposizione (che rimane per fronteggiare le sopravvenienze non incidenti sulla causa del contratto, ovverossia per i presupposti non causali e per quei fattori che incidono sul quantum).

II.4. L’applicazione dei suddetti principi all’attuale emergenza sanitaria, pertanto, evidenzia l’opportunità (e, probabilmente, la giuridica coercibilità) di un accordo tra le parti per la riduzione del canone di locazione, esente da spese di registrazione e di bollo (ai sensi dell’art. 10 del D.L. n. 133/2014, convertito con modificazioni dalla L. 11 novembre 2014, n. 164).

Per la registrazione occorre compilare il Modello 69, reperibile sul sito dell’Agenzia delle Entrate, ove riportare i dati del contratto di locazione ed i relativi codici di registrazione, cui allegare il testo dell’accordo.

In difetto di accordo, come prima segnalato, il conduttore -sulla base degli istituti appena esaminati della causa in concreto e della presupposizione- potrebbe avvalersi degli artt. 1463 e 1467 c.c.

In particolare, quest’ultimo consentirebbe al conduttore, non solo di risolvere il contratto ma, altresì, di ottenere dal locatore la riconduzione ad equità della locazione, con la riduzione dell’importo dei canoni.

Il conduttore, inoltre, potrebbe anche invocare l’applicazione dell’art. 1464 c.c. (impossibilità parziale) secondo cui “qualora la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione dovuta” per ottenere una riduzione del canone di locazione.

Infine, ai sensi del secondo comma dell’art. 1256 c.c. (che disciplina il caso in cui l’impossibilità della prestazione sia solo temporanea), il medesimo conduttore potrebbe anche chiedere al locatore la sospensione del pagamento dei canoni.

Invero, il divieto di esercitare l’attività lavorativa comporta l’impossibilità di utilizzare l’immobile, quale prestazione dovuta dalla controparte (il locatore), mentre la mancanza degli incassi determina l’impossibilità di adempiere alla propria obbligazione (il canone).

Tale opzione, tuttavia, risulta validamente percorribile soltanto per il periodo di emergenza sanitaria, di guisa che una volta cessata il conduttore sarà tenuto al pagamento dei canoni precedentemente non corrisposti.

-III-

Il Decreto “Cura Italia” n. 18 del 2020, prevedendo, a sostegno dei conduttori, un credito d’imposta pari al 60% del canone di locazione per il mese di marzo, in realtà, tutela anche il locatore perché gli consente di poter percepire il canone.

In secondo luogo, un accordo tra conduttori e locatori per una riduzione del canone sarebbe vantaggioso anche per il locatore perché: (i) gli consentirebbe comunque di ricavare un’entrata dall’immobile; (ii) per tale accordo non sarebbero dovute spese di registrazione e l’atto sarebbe esente da bollo ai sensi dell’art. 10 del dl 133/2014, convertito con modificazioni dalla L. 11 novembre 2014, n. 164; (iii) registrando l’accordo, il locatore pagherà le imposte solo su quanto effettivamente riscosso e potrà così ridurre anche l’ammontare delle imposte da pagare in acconto con la prossima denuncia dei redditi.

Qualora non sia possibile addivenire ad un accordo, i suddetti rimedi, individuati per tutelare il conduttore di una locazione commerciale fortemente danneggiato dalla sopravvenienza atipica del coronavirus, incidendo sul sinallagma contrattuale, a ben vedere, sono idonei a tutelare anche gli interessi del locatore.

Invero, l’art. 1463 c.c., consentendo la risoluzione del contratto di locazione commerciale per impossibilità di utilizzo della prestazione, venendo a mancare la causa in concreto, permette anche al locatore di “liberarsi” dall’obbligo di tenere a disposizione del conduttore un immobile senza ricavarne alcun guadagno.

Infatti, è indubbiamente più conveniente per il locatore avere un immobile libero, da adibire ad attività personali o da poter locare ad un altro imprenditore che svolga un esercizio commerciale ritenuto necessario dagli ultimi provvedimenti governativi.

L’art. 1467 c.c. consente, non solo di risolvere il contratto di locazione commerciale con effetti retroattivi solo tra le parti e non per i terzi (i cui diritti acquistati non verranno pregiudicati), ma prevede anche un rimedio di tipo manutentivo e cioè la riconduzione ad equità del contratto.

La riduzione del canone di locazione tutelerebbe anche il locatore perché gli permetterebbe comunque di percepire un’entrata dall’immobile, anche se ridotta.

Lo stesso tipo di valutazione può essere fatta per il rimedio previsto dall’art. 1464 c.c. secondo cui “qualora la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto ad una corrispondente riduzione della prestazione dovuta” che, con la riduzione dell’ammontare del canone, consente al conduttore di adempiere alla sua prestazione e al locatore di percepire un guadagno.

Infine, il comma secondo dell’art. 1256 c.c. stabilendo che “se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore finchè essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento”, in realtà sembrerebbe tutelare più il locatore che il conduttore perché, anche se consente a quest’ultimo di non pagare i canoni finchè perdura l’emergenza sanitaria senza essere costituito in mora, permette al locatore, una volta che l’emergenza del coronavirus sarà finita, di ottenere, insieme ai nuovi canoni, anche i canoni già scaduti ma non percepiti, per lo stesso ammontare previsto originariamente in contratto, seppure senza l’applicazione di interessi di mora.

 

Avv. Vittoria Giua Marassi

 

 

 

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