Con l’inizio della fase due, il d.p.c.m. del 17 maggio, n. 19 ha dato il via libera alla riapertura di palestre, piscine, centri e circoli sportivi, pubblici e privati, nonché di “altre strutture ove si svolgono attività dirette al benessere dell’individuo attraverso l’esercizio fisico”. Tuttavia, pur prevedendo dettagliati protocolli atti a prevenire una ricaduta dell’epidemia, il predetto provvedimento rimane vago nell’individuare quali siano i soggetti tenuti all’applicazione di tali misure.

In particolare, nulla viene detto riguardo alla peculiare ipotesi in cui una struttura di proprietà di un ente pubblico venga affidata a una società sportiva, al fine di permettere a quest’ultima di svolgere i propri allenamenti e le altre attività, come i tornei, comunque connesse alla vita della squadra che la rappresenta.

Una prima indicazione può rinvenirsi nell’allegato 17, sezione rubricata “scopo e principi generali”, ai sensi del quale le linee guida si inseriscono nella cornice del d.lgs. n. 81/2008 (Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro). Pertanto, anche in ambito sportivo, l’adozione dei protocolli ricade sul datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti.

Per quanto, invece, concerne i soggetti terzi che fruiscono della palestra o del diverso impianto sportivo, il d.p.c.m. del 17 maggio, n. 19 si limita a constatare che all’applicazione delle misure di prevenzione da attuarsi nelle palestre siano tenuti gli “enti locali e soggetti pubblici e privati titolari di palestre”. Indicazione che in verità appare piuttosto vaga in merito a ciò che debba essere inteso come “titolare”, soprattutto laddove (come nel caso in esame) il proprietario della struttura non sia anche il soggetto preposto alla gestione.

Nel silenzio normativo, allora, si deve ritenere che sia la disciplina dettata per il tipo di contratto a determinare il sistema della responsabilità. Per questa ragione, si ritiene opportuno comprendere in prima battuta quale sia il regime contrattuale in base al quale la struttura è stata concessa.

A tal fine, è sicuramente rilevante determinare se il bene in oggetto appartenga al patrimonio indisponibile o disponibile dell’ente. Infatti, come appurato da stabile Giurisprudenza, è la particolare destinazione del bene alla finalità pubblica a impedire che questo possa essere oggetto di locazione e che, a contrario, il bene demaniale o indisponibile “può essere legittimamente attribuito ad un soggetto diverso dall’ente titolare del bene – entro certi limiti e per alcune utilità – solo mediante concessione amministrativa” (v. Consiglio di Stato sez. VI, 19/07/2013, n.3924; in senso analogo: T.A.R. Milano, sez. I, 10/12/2018, n. 2770).

Sono quindi date due ipotesi: quella in cui il bene appartenga al patrimonio disponibile, e sia quindi dato in locazione alla società; e quella del bene demaniale o appartenente al patrimonio indisponibile, in cui il contratto sia da qualificarsi in termini di concessione d’uso.

– locazione –

Nel caso del contratto di locazione, non vi sono dubbi sull’applicabilità del regime della responsabilità del locatore di cui all’art. 1575 cod. civ., in virtù del quale il locatore è tenuto unicamente a garantire il buono stato di manutenzione della cosa locata così come alla consegna e non anche ad apportare alla cosa le modifiche necessarie a renderla idonea all’uso pattuito.

Ciò comporta che esuli dal regime della responsabilità del locatore tutto quanto inerisce “alla idoneità specifica dell’immobile all’esercizio di una determinata attività industriale o commerciale per la quale è stato locato” (v. Cassazione civile, sez. III, 28/11/1998, n. 12085; Tribunale, Torre Annunziata, 17/01/2014, n. 205).

Di converso, si osserva che la Giurisprudenza fa discendere dall’obbligo di conservazione della cosa ex art. 1575 cod. civ., anche un obbligo di vigilanza ex art. 2051 cod. civ. in capo allo stesso locatore. In questo senso, egli è tenuto alla custodia della cosa e risponde di culpa in vigilando nell’ipotesi in cui trascuri di controllare, laddove di sua competenza, l’attività del conduttore.

A tal proposito, è rilevante quantomeno richiamare l’orientamento della Corte di Cassazione (sez. III) confermato nella recente pronuncia del 28/09/2018, n.23442 – in tema però di appalti di lavori – secondo cui “il committente, che ne sia proprietario o possessore, resta certamente nel possesso, ed anche nella giuridica detenzione, del bene oggetto dell’appalto […]. Non si può pertanto consentire, di regola, al custode di liberarsi della sua posizione di “garanzia” semplicemente trasferendo contrattualmente tale posizione in capo ad un terzo, senza alcun limite (se non quello, del tutto generico, della cd. culpa in eligendo), e ciò specie se si tratti del proprietario di un immobile che trasferisca tale posizione di garanzia ad un terzo che non ne è proprietario e non offra la stessa solvibilità. Ammettendo una siffatta possibilità, si finirebbe per eludere l’effettiva funzione della disciplina della responsabilità per i danni causati dalle cose, come delineata dall’art. 2051 c.c., disciplina che consente l’esonero del custode dalla responsabilità per i danni causati dalla cosa solo laddove egli provi il caso fortuito. Con la semplice stipula di un contratto di appalto si verrebbe invece a configurare nella sostanza una ulteriore causa di esonero dalla indicata responsabilità oggettiva, molto meno rigorosa dell’unica ipotesi espressamente prevista dalla legge (e cioè il caso fortuito), così elidendo artificiosamente il rigore della regola normativa”.

Se il caso in esame presenta certamente alcune differenze sostanziali rispetto all’ipotesi esaminata della Suprema Corte – nello specifico, è evidente che la concessione in uso presenta differenze rispetto all’appalto di lavori – non è da trascurare che la sentenza qualifica l’appalto come un modo di esercitare la custodia da parte del committente, argomento che può essere ben applicato anche al caso di specie.

Inoltre, nelle conclusioni, arriva ad affermare la regola per cui non è data una clausola contrattuale che sollevi il custode – il locatore – dall’unica ipotesi di esonero dalla responsabilità prevista dalla legge, ossia il caso fortuito.

Su tale scia anche pronunce più risalenti, come quella del 22/03/2011, n. 6525, il cui la Corte di Cassazione (sez. III) afferma la responsabilità del proprietario di un’area, interessata dalla presenza di rifiuti, il quale, acquisita consapevolezza del fatto, non si sia attivato immediatamente per la loro rimozione anche agendo in giudizio nei confronti del locatario. Viceversa, l’accordo stipulato con il locatario per eliminare i rifiuti entro un certo termine, anche se breve, fa sorgere in capo al proprietario una corresponsabilità insieme all’autore materiale dell’illecito.

Pertanto, in ipotesi di attività illecite svoltesi nell’immobile, il comportamento del locatore che non intervenga attivamente alla rimozione dei rifiuti (rectius: alla rimozione dell’illiceità) risponde della condotta omissiva da lui tenuta.

A questo punto, è utile notare che la responsabilità di cui all’art. 2051 cod. civ. è una responsabilità di tipo oggettivo. Ciò comporta un esonero dall’indagine circa la presenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa) del responsabile. In senso opposto, le sanzioni amministrative (come quella di cui all’art. 4 del decreto-legge del 25 marzo 2020, n. 19)  hanno carattere punitivo, per cui – a rigore – dovrebbe essere sempre applicabile il principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost., pure riconfermato dall’art. 3, L. 689/1981 ai sensi del quale “nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”. La sentenza n. 6525/2011 di cui supra costituisce in questo senso un precedente rischioso, perché riconduce la responsabilità del proprietario a una condotta omissiva e non esclude, quindi, l’elemento soggettivo.

Pertanto, volendo trarre le conclusioni, si può affermare che se l’attuazione concreta dei protocolli può ricadere in capo al gestore (conduttore), sopravvive l’obbligo di vigilanza dell’ente proprietario.

– concessione d’uso –

La concessione in uso di un bene pubblico, quale che sia la terminologia adottata nella convenzione ed ancorché presenti elementi privatistici, è (sempre) riconducibile, ove non risulti diversamente, alla figura della concessione-contratto (v. Consiglio di Stato sez. VI, 19/07/2013, n.3924), in cui l’esercizio del potere autoritativo (a monte) convive con gli elementi dell’accordo paritetico, il quale integra la concessione e ne detta il regime.

In questo senso, è bene notare che T.A.R. Cagliari, (Sardegna) sez. I, 27/10/2017, n.676, riconosce che i principi di cui all’art. 1578 cod. civ. in materia di locazione si applicano chiaramente alle concessioni amministrative.

Pertanto, è possibile concludere che, anche a fronte di una concessione, siano le norme che il Codice detta in materia di locazione a regolare la fattispecie, ivi compreso l’art. 1575 cod. civ., relativo appunto alla responsabilità del locatore (si rimanda interamente a quanto detto supra): l’attuazione concreta dei protocolli può ricadere in capo al gestore (conduttore), ma non viene meno l’obbligo di vigilanza dell’ente proprietario.

 

Dott.ssa Valentina Taccori

 

 

 

 

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